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Capitolo Primo

Breve Storia del Regionalismo nel Sud-Est Asiatico

 

 

 

 

 

 

"Per comprendere il presente ed anticipare il futuro, si deve sapere abbastanza del passato, abbastanza da percepire il senso della Storia di un Popolo".
Lee Kuan Yew, ex primo ministro di Singapore, 1980.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.1 Cenni storici

Le civiltà esistenti nella regione del Sud-est Asiatico affondano le proprie radici nella preistoria.

Alcuni resti fossilizzati del cosiddetto uomo di Giava, scoperti nella omonima isola dell’arcipelago indonesiano, risalgono addirittura a mezzo milione di anni fa e testimoniano la prima apparizione conosciuta del precursore dell’uomo su queste terre.

Nonostante la presenza ab antiquo di insediamenti locali, le fonti storiche che aiutino a capire il passato di tali civiltà sono molto scarne ed indirette. Gli abitanti della regione, finanche in tempi più recenti, hanno infatti rivolto molta attenzione al rispetto delle proprie tradizioni, al culto delle proprie religioni ed allo svolgimento delle rispettive semplici attività senza aver troppa cura nel corso del tempo né della loro sistematica documentazione né a posteriori del loro studio.

É soltanto con l’addentrarsi dei primi cinesi ed europei in questi territori che si è iniziato a tramandare informazioni storiche preziose ai posteri.

Fino ad allora, ed in verità per lungo tempo ancora, l’interesse degli abitanti per il loro passato era legato alla, per certi versi poetica ma indubbiamente meno attendibile, tradizione orale ricca di miti e leggende. Fra di esse risaltano per bellezza ed epicitá quelle relative all’origine delle varie popolazioni.

Nelle Filippine, ad esempio, la leggenda voleva che un tempo tutto ciò che esistesse nel mondo fossero il mare, il cielo ed un uccello, il quale stremato dal continuo volare e non avendo un luogo dove posarsi, provocò una lite tra il mare ed il cielo. Il mare lanciò allora contro il cielo onde enormi e quest’ultimo rispose con una pioggia di massi giganteschi. Da essi nacquero, secondo quest’affascinante racconto, le prime isole terrestri, le Filippine.

I cantastorie del Laos, per conto loro, peregrinando di villaggio in villaggio nella valle del Mekong erano usi offrire una versione non meno leggendaria sull’origine delle proprie popolazioni. Essi cantavano di un antico condottiero il cui bufalo morì e dalle cui narici spuntò un rampicante con tre zucche. Quando queste furono mature sembrò che, al loro interno, qualcosa si agitasse. Il condottiero decise allora di bucarle con un ferro rovente e scoprì che ne venivano fuori rivoli d’uomini. Quelli che uscirono dai fori bruciacchiati erano del colore del carbone e da essi discesero le scure popolazioni malesi (Kha) e da quelle più pulite vennero fuori i popoli mongoloidi del Laos, di pelle più chiara (KARNOW 1964).

Sebbene l’oggetto di questa tesi non consenta di dilungarsi eccessivamente su tali affascinanti leggende popolari, esse testimoniano come la tradizione orale fosse radicata, e quali difficoltà, in un contesto del genere, hanno dovuto affrontare gli studiosi nel reperimento di attendibili fonti storiche locali.

Di fondamentale aiuto nella ricostruzione storica degli aspetti caratterizzanti le civiltà considerate è stata ed è tuttora la ricerca archeologica.

Grazie ad essa, per esempio, sono state riportate alla luce, nel Nord-Est dell’attuale Thailandia, delle tracce di insediamenti organizzati risalenti al IV millennio a.C.

Il loro studio ha permesso di ricostruire la vita dell’epoca e di raggiungere la prevedibile conclusione che si trattasse di comunità ancora piuttosto primitive, i cui ritmi di vita erano cadenzati dalla necessità di soddisfare bisogni primari e contingenti, da una parte mediante la lavorazione del metallo al fine di ottenere in prevalenza armi ed utensili rudimentali e dall’altra attraverso la coltivazione di prodotti agricoli.

In relazione al primo aspetto va precisato che l’arte di lavorare il bronzo, diffusasi originariamente dalla Cina, si specializzò nella creazione anche di altri pregevoli manufatti. Degni di nota, a questo proposito, sono i grandi tamburi cerimoniali Dong Son che prendono nome dall’omonimo sito vietnamita dove sono stati riportati alla luce. Oltre che dall’intrinseco valore artistico, la ragione della loro rilevanza scaturisce dal fatto che il più delle volte tali tamburi raffigurano scene di vita quotidiana; essi, quindi, forniscono utili informazioni agli storici per decifrare la realtà dell’epoca. Da essi, ad esempio, si è dedotto che le comunità rurali del tempo vivevano generalmente in costruzioni strutturate a mo’ di palafitte.

I primi manufatti che testimoniano il passaggio all’età del ferro risalgono al 1500 A.C.

A partire da quest’epoca la metallurgia, sia pur nelle debite proporzioni, divenne un’attività sempre più diffusa nella regione e, in particolare, in quella parte di essa corrispondente all’attuale Vietnam settentrionale.

Se inizialmente l’attività primaria degli abitanti era legata allo sfruttamento delle abbondanti foreste tropicali ed all’orticoltura, già a partire dal secondo millennio a.C. prendeva piede, nelle pianure alluvionali della terraferma e più tardi su terrazzamenti costruiti nelle estese zone collinari, una lenta transazione a favore della coltivazione del riso, facilitata dall’addomesticamento del bue e del bufalo. Tale cereale, come è noto, era ed è rimasto tuttora l’alimento principale di gran parte delle popolazioni asiatiche.

Esso divenne, a poco a poco, il prodotto agricolo di gran lunga più importante, ma non l’unico; miglio (da foraggio), fagioli, lenticchie, arachidi, sesamo, chiodi di garofano, noce moscata, pepe, cotone, canfora, succo di datteri (come dolcificante), cocco, banane, papaia, mango ed ananas erano altri prodotti tipici di quest’area e rappresentavano una fetta consistente del complesso delle transazioni economiche effettuate sotto forma di baratto.

Dal punto di vista geo-economico la mappa preistorica della regione si configurava come una sorta di rete poco connessa di piccoli insediamenti relativamente isolati e stanziali, la cui caratteristica preponderante era quella di sfruttare in maniera simbiotica le risorse ambientali locali dando luogo a quella che gli studiosi usano definire una "economia di sussistenza ad ampio spettro" in continua espansione (WOLTERS 1982).

Sotto l’aspetto etnico il Sud-est dell’Asia non poteva, fin da allora, considerarsi omogeneo. Agli indigeni locali (Australoidi, Veddidi, Negritos), radicatesi già in epoca preistorica, si mescolarono in migrazioni successive Austronesiani e Mongoloidi. Gli influssi maggiori provenirono successivamente dall’India e dalla Cina. Per tale ragione, in epoca coloniale, i francesi coniarono il termine Indocina per riferirsi ai territori del Laos, della Cambogia e del Vietnam.

Il territorio era abitato da "un mosaico perennemente mutevole di piccoli gruppi culturali…„ (BAYARD 1980) che vivevano, come accennato, in comunità piuttosto isolate, separate da fitte foreste tropicali e profondamente attaccate ai luoghi in cui si erano insediate. Esemplare, a questo riguardo, è il caso dell’isola di Giava dove delle antiche scritture e dei poemi cantati sono sopravvissuti intatti nel trascorrere dei secoli senza subire contaminazioni da culture estranee.

All’eterogeneità etnica e culturale degli abitanti si aggiungeva, come inevitabile conseguenza, quella linguistica. Nonostante gli idiomi parlati potessero essere inizialmente ricondotti essenzialmente a due famiglie linguistiche, quella "austronesiana" diffusa nell’arcipelago e quella "austroasiatica" (o "mon-khmer") presente nella terraferma, nel corso del tempo quest’ultima ebbe a subire notevoli mutamenti ad opera di altri ceppi linguistici ("thai" e "birmense").

A ciò si aggiunga che alla sopracitata classificazione teorica per famiglie e ceppi si contrapponeva nella realtà la presenza di una moltitudine di dialetti che, a volte, rendevano difficile la comunicazione finanche tra villaggi poco distanti l’uno con l’altro.

Solo in epoca più recente, complici fra l’altro l’espansione demografica e quella del commercio, si poté assistere ad una maggiore interazione tra le comunità diffuse nel territorio e, quindi, ad una graduale, ma pur sempre relativa, standardizzazione linguistica.

Per quanto la complessità della regione rendesse, dunque, difficile trovare un minimo comune denominatore diverso da quello della mera appartenenza ad una medesima area geografica, alcuni scrittori cinesi, arabi, egiziani e persino greci e romani riconoscevano ed attribuivano alle popolazioni che vi abitavano una sorta d’identità comune se non altro per l’importante ruolo da esse rivestito nel primitivo sistema commerciale internazionale.

I cinesi le chiamavano sprezzantemente Nan-Man, "barbari del Sud", ed utilizzavano il generico termine K’un lun (TAYLOR 1976) per riferirsi indistintamente alla regione dei Mari del Sud. Il significato di tale termine, "terre vulcaniche", non si discostava molto da quello attribuitole similmente dai giapponesi con la parola Nan yo.

Gli arabi usavano intrattenere rapporti commerciali via mare con tali popolazioni e, dato che esse si spingevano per i loro traffici di spezie ed altri prodotti esotici fino al Madagascar, usavano il termine Waq-Waq per indicare genericamente l’estesa ed a loro ancora poco conosciuta zona geografica che partiva dalla suddetta isola e si estendeva fino al Giappone. Fu, difatti, solo grazie al geografo alessandrino Tolomeo che, nel II secolo d.C., si poté avere a disposizione una primordiale mappa generale che si estendesse fino al Borneo.

I popoli appartenenti a quest’area geografica, oltre ad avere qualche cognizione di astronomia, raggiunsero un buon grado di abilità nella navigazione e nella costruzione di imbarcazioni.

Il commercio internazionale via mare con l’Occidente ed il Medio Oriente, nato già alcuni secoli a.C. e proseguito per l’intera epoca moderna, si rivelò, in effetti, un’altra importante attività economica della regione favorita peraltro dalla posizione strategica a cavallo tra l’Oceano Indiano e quello Pacifico. Non a caso, infatti, la prosperità politica ed economica dei suoi abitanti subiva fasi alterne in stretta connessione con l’apertura o la chiusura delle concorrenziali strade di terraferma dell’impero cinese ed indiane.

Non meno rilevanti furono le influenze dirette esercitate da queste vicine potenti civiltà nei riguardi della regione. È dall’influsso fecondatore della cultura indiana e, in misura minore, di quella cinese che l’Asia sudorientale cominciò ad esprimere e sviluppare una cultura propria significativa (HALL 1972).

L’azione esercitata dalla Cina e dall’India durante la millenaria storia della regione fu, ad ogni modo, piuttosto diversa.

L’impero del nord svolse un’azione di natura prettamente politica e militare, dettata sia da fini economici, ad esempio attraverso l’imposizione di tasse, e sia da cause di forza maggiore; rientra nella seconda specie, ad esempio, la pressione a loro volta subita dai cinesi per effetto delle invasioni settentrionali dei mongoli e che fu, tra l’altro, la ragione principale per cui fu costruita, nel corso di decenni, la Grande Muraglia.

L’India, invece, ha esercitato un’influenza più spiccatamente culturale e religiosa. Dall’unione della civiltà indiana e quella cambogiana, ad esempio, nacquero e si svilupparono prima lo Stato di Funan (I-VI d.C.) e più tardi lo stupefacente regno di Angkor (IX-XIV d.C.), i cui templi restaurati sono a giusto titolo patrimonio architettonico dell’umanità secondo le valutazioni dell'UNESCO.

La situazione politica del territorio continuò a presentarsi, anche secoli dopo la nascita di Cristo, piuttosto frastagliata. Marco Polo, attirato dalle preziose spezie (all’epoca fonte di arricchimento nonché vero e proprio simbolo di una condizione sociale) e forse anche da un’indomabile voglia di conoscere paesi e culture lontane, si spinse, a cavallo tra il XIII ed il XIV secolo, fino all’isola di Sumatra e ne notò, egli stesso, la frammentarietà politica: "l’isola ha otto regni e otto re coronati".

Gli europei nel loro complesso riconobbero in epoca di espansione coloniale l’importanza strategica del Sud-est dell’Asia in termini di posizione geografica e di risorse naturali ed alimentari. Sono queste le terre che Cristoforo Colombo si era prefissato di raggiungere e che credeva erroneamente, sbarcato in realtà nell’odierna isola di San Salvador, di aver toccato.

L’avanzata dell’islamismo avvenuta nel XIV e XV secolo amplificò l’interesse occidentale per questa area.

Dopo che i mori erano stati ricacciati dall’Europa, i portoghesi intrapresero un’altra crociata per limitarne l’influsso in Asia. Vasco da Gama sbarcò in India nel 1498 alla ricerca, come ebbe a dire egli stesso, di "cristiani e spezie".

L’arrivo su queste terre di avventurieri, soldati, mercanti e missionari segnò, così, l’inizio della prima penetrazione europea.

Ai portoghesi si sostituirono gli olandesi e gli inglesi con le loro Compagnie delle Indie Orientali. Esse monopolizzarono il commercio mondiale delle spezie ed arricchirono enormemente, oltre che gli stessi mercanti, le casse delle rispettive monarchie europee. Si pensi che un chilo di chiodi di garofani fruttava mediamente in madrepatria un utile di circa il 2000 per cento e che la Compagnia Olandese raggiunse un profitto lordo annuo di due milioni e mezzo di fiorini, cifra elevatissima per l’epoca.

La rivoluzione industriale, con la sua insaziabile sete di materie prime, decretò nel XVIII e XIX secolo la seconda ondata espansionistica.

Il livello di tale flusso "migratorio" era strettamente correlato all’evolversi dei mezzi di trasporto e delle vie di comunicazione con l’oriente. Sembra opportuno notare, a questo proposito, come l’apertura del Canale di Suez nel 1869 abbia contribuito in maniera rilevante all’aumento di tale flusso.

Non rientra negli scopi di questa ricerca indagare in dettaglio o tantomeno dare un giudizio di valore sul fenomeno dell’imperialismo occidentale che ha interessato queste terre. A priori qualsiasi prevaricazione di un popolo su di un altro appare illegittima, tanto più se essa è giustificata da interessi meramente economici.

Non va sottaciuto, tuttavia, che in particolar modo durante la prima metà del secolo lo sfruttamento che alcune popolazioni locali hanno dovuto subire per mano degli occidentali ha toccato livelli molto elevati ed ha in qualche modo contribuito al lento diffondersi nella maggioritaria classe rurale dell’ideologia, anch’essa di origine occidentale, comunista. D’altro canto, sarebbe irrealistico non rilevare come l’intera storia dell’uomo sia stata caratterizzata da simili fenomeni di prevaricazione e che, sia pur in tutta la sua negatività, il colonialismo ha apportato quantomeno alcuni benefici (progresso tecnico, istruzione, igiene, ordine sociale).

Non sembra fuori luogo evidenziare, inoltre, come l’atteggiamento nei riguardi delle popolazioni dominate abbia assunto connotati molto diversi a seconda delle potenze coloniali prese in considerazione.

Riferendo sul comportamento dei portoghesi nelle Molucche, il missionario S. Francesco Saverio scrisse che la loro cultura si limitava alla coniugazione del verbo rapere, rubare, e che in questo mostravano "una stupefacente capacità, inventando continuamente nuovi tempi e nuovi participi" (KARNOW 1964).

Gli stessi britannici, dal canto loro, non furono indubbiamente mossi da sentimenti filantropici nell’attività di dominazione delle colonie ma, per lo meno, contribuirono in misura maggiore allo sviluppo sociale, civile ed economico delle popolazioni sottomesse.

I territori, poco distanti fra loro, di Macao ed Hong Kong offrono forse gli esempi più emblematici ed attuali di tale diversità di atteggiamento. L’una, colonia portoghese, arranca tuttora in una situazione di precario sviluppo, l’altra, recentemente fagocitata dalla madrepatria cinese, ha raggiunto grazie soprattutto alla lungimiranza politica britannica un livello di sviluppo tale da meritarsi l’appellativo di "tigre asiatica".

Ad eccezione della Thailandia tutti i paesi che rientrano in questa regione sono stati coinvolti dalla suddetta espansione colonialista occidentale (CHURCH 1995); Indonesia, Filippine e l’attuale Malaysia già a partire dal XVII secolo, mentre Birmania, Brunei, Cambogia, Laos, Singapore e Vietnam solo dal XIX secolo, in seguito alla seconda ondata espansionistica.

Tali regimi colonialistici hanno avuto termine, chi prima chi poi, in un arco di tempo relativamente breve susseguente la seconda Guerra Mondiale.

Le Filippine ottennero l’indipendenza dagli Stati Uniti nel 1946, allorché il liberale Manuel A. Roxas divenne primo presidente della Repubblica. La democrazia durò fino al 1972, data del colpo di stato guidato da Ferdinando Marcos. Il ripristino del governo democratico è avvenuto in seguito ad elezioni indette nel 1986 che decretarono la fine della dittatura e l’ascesa al potere di Cory Aquino. La potenza americana conservò, ciononostante, il diritto di mantenere basi militari e di godere di particolari benefici economici.

La Birmania (ora Myanmar) si staccò dal Commonwealth e divenne indipendente nel 1948. Sao Shwe Thaik e Thakin U Nu vennero, in quella occasione, confermati rispettivamente capo dello stato e primo ministro. Il fallimento del sistema federale allora concepito, che nella carta doveva garantire ampie autonomie territoriali, e la conseguente concentrazione del potere in Yangon avrebbero determinato dal 1948 in poi una crescente instabilità politica deleteria per il paese.

Nel 1949, dopo anni di guerriglia armata e pressioni diplomatiche, l’Indonesia raggiunse un accordo con gli olandesi per il ristabilimento di un governo repubblicano; a ciò seguì la liberazione del leader nazionalista Sukarno che, pochi anni più tardi, sarebbe salito a capo del paese impostando una sorta di democrazia, da lui stesso definita, "guidata".

Il Laos ottenne una certa indipendenza nel 1949 e la Cambogia divenne autonoma nel 1953 anche se l’ingerenza francese si sarebbe fatta sentire ancora per lungo tempo.

Il Vietnam, dopo la disfatta dei francesi a Dien Bien Phu nel 1945, vide da una parte recidere i vecchi legami esterni e dall’altra, a seguito degli accordi di Ginevra, lo smembramento del paese all’altezza del 17° parallelo. Il nord, denominato Repubblica Democratica del Vietnam, fu guidato dai comunisti di Ho Chi Minh, il sud fu invece affidato al governo di Bao Dai, ex-regnante abdicato nel 1945. La riunione in un unico paese avvenne dopo vicende alterne e conflittuali nel 1975, allorché il Fronte di Liberazione Nazionale (vietcong) entrò a Saigon superando le ultime difese americane e sudvietnamite.

L’ultimo paese della regione a beneficiare dell’indipendenza fu la Malesia che nel 1957 si affrancò pacificamente dalla colonizzazione britannica; di lì a poco essa avrebbe creato, non senza suscitare forti contrapposizioni, ad una nuova entità, la Federazione della Malaysia (o Grande Malesia).

Le conclusioni che emergono dallo studio della storia del Sud-est Asiatico, qui brevemente delineata, rivelano, dunque, un panorama piuttosto complesso e frammentato.

Non a caso, in una regione che si estende per circa 5,3 milioni di Km quadrati, si parlano attualmente 13 lingue ufficiali e si professano sette religioni principali.

Sotto la prospettiva regionalistica, tale eterogeneità storica e culturale rende alquanto difficile ipotizzare che vi sia mai stata una "identità comune" percepita dai suoi abitanti.

Questa caleidoscopica regione, in sostanza, non è mai stata terreno fertile per la crescita, tra le sue popolazioni, di un saldo senso di appartenenza ad una medesima comunità o, quantomeno, ad uno stesso territorio.

In altri termini è mancato quel sentimento collettivo che, ad esempio, ritroviamo ancora oggi nei paesi africani e che Léopold Senghor, presidente del Senegal negli anni ’60, definì négritude.

La causa di tutto ciò va forse imputata alla più volte evidenziata eterogeneità etnica, linguistica, religiosa e morfologica e che, come visto, affonda le proprie radici nella storia della regione.

Quello che forse è più mancato, a questo proposito, è stata la presenza di un leader capace di amalgamarne i caratteri. In ciò questa area si differenziò notevolmente da quella cinese che, grazie soprattutto all’attività conquistatrice ed egemonizzante di Qin Shi Huangdi, riuscì a superare, già a partire dal 221 A.C., la frammentarietà politica del territorio e ad instaurare un lungo e fiorente impero dinastico.

Né i cinesi e né gli indiani riuscirono mai a controllare l’intera area e, per certi versi, essa è stata per lungo tempo un’arena in cui l’India e la Cina si sono confrontate.

Attualmente si contano circa 32 gruppi etno-linguistici (Tabella 1.1) i quali, spesso e volentieri, trascendono i confini nazionali (PARIBATRA-CHAI-ANAN 1992).

In base a queste considerazioni, non appare strano costatare come i primi passi verso la realizzazione di forme primordiali di coesione in un’ottica regionalistica siano stati compiuti solo dopo la II guerra mondiale. Le dominazioni occidentali impedirono, in effetti, un simile processo facendone venire meno il presupposto fondamentale, l’indipendenza e la sovranità delle comunità presenti.

 

Tabella1.1 Principali gruppi etnolinguistici di alcuni stati sudorientali

Stato

Gruppo etnolinguistico

Popolazione (%)

Myanmar (Birmania)

Birmano
Karen

75
10

Cambogia

Khmer
Cinese

90
6

Filippine

Cebuano
Tagalog
Ilocano
Hilligaynon

24
21
12
10

Indonesia

Jananense
Sundanese

45
14

Laos

Lao
Mon-Khmer

67
19

Malaysia

Malese
Cinese
Indiana

44
35
11

Singapore

Cinese
Malese
Indo-pakistano

75
14
8

Thailandia

Thai
Lao
Cinese

60
25
10

Vietnam

Vietnamita

87

 

 

Fonte: ASEAN

Il regionalismo, inteso come forma di coesione, di cooperazione e, nei suoi lineamenti piú estremi, di integrazione fra nazioni appartenenti alla medesima area geopolitica, si è sviluppato dunque in epoca più recente rispetto alla millenaria storia che ha caratterizzato le diverse civiltà insediate in questo territorio.

Nonostante la recente apparizione il regionalismo, anello di congiunzione tra la forza centripeta del nazionalismo e quella centrifuga del globalismo, è il fenomeno che ha caratterizzato maggiormente quest’area (e con essa quella europea) nell’era postcoloniale.

Inizialmente esso non è rimasto indenne, tuttavia, alla pressione strumentale esercitata dalle ex-colonie e dalle superpotenze a tutela dei propri interessi.

Il prossimo paragrafo, analizzando le prime forme di organizzazione regionale, prende in esame questo aspetto.

 

 

1.2 Le prime organizzazioni regionali nel post-colonialismo

1.2.1 Quadro introduttivo

Il regionalismo nel Sud-Est Asiatico, per le ragioni sopra evidenziate, si è sviluppato soltanto a partire dal dopoguerra. Esso si è evoluto attraversando essenzialmente tre fasi (LYON 1973).

1) La prima fase, che va dal dopoguerra fino all’inizio degli anni ‘60, è stata caratterizzata dalla forte influenza, per certi versi ancora di stampo colonialistico, esercitata dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti in merito alla nascita ed alla natura del vincolo associativo da adottare a livello regionale.

Erano gli anni che videro nascere l’ECAFE (Commissione economica per l’Asia e l’Estremo Oriente) ed il Piano Colombo, due strumenti tanto utili allo sviluppo asiatico quanto istituzionalmente deboli e dipendenti dalle superpotenze britannica e statunitense. In particolare all’origine del Piano Colombo "vi era il desiderio della Gran Bretagna e degli stati del Commonwealth dell’Asia del Sud, del Sud-est e del Pacifico di mantenere fra loro, all’indomani della decolonizzazione, certi legami economici" (JOYAUX 1997).

A conti fatti questi raggruppamenti regionali erano o troppo estesi, nel caso dell’ECAFE, o troppo legati al processo di decolonizzazione, nel caso del Piano Colombo.

È in questo contesto che nel settembre del 1954 fu formalmente lanciato il primo schema organizzativo della regione, la SEATO (Organizzazione del Trattato del Sud-Est Asiatico).

La sua portata, come vedremo in seguito, fu piuttosto limitata sia in termini quantitativi, poiché nell’area contava soltanto due paesi membri (Filippine e Thailandia), sia in termini qualitativi, poiché la cooperazione configurata era ancora troppo legata alla strategia americana dei tempi della guerra fredda.

In questa prima fase, dunque, le iniziative locali in tema di regionalismo erano se non inesistenti quantomeno retoriche o di stampo occidentale.

2) La seconda fase del lento processo cooperativo regionale va dagli inizi fino alla metà degli anni ’60. Essa, oltre a testimoniare il prolungarsi dell’ECAFE e del Piano Colombo, segna per la prima volta l’inizio tangibile di una, sia pur primordiale, presa di iniziativa diretta e locale in materia di organizzazione regionale.

Sebbene tali tentativi non andarono in porto, essi rappresentarono un significativo esempio di come alcune nazioni del Sud-Est Asiatico avessero preso coscienza sia della necessità sia della propria capacità di compiere autonomamente dei passi fondamentali verso l’istituzionalizzazione di una forma di organizzazione dedita ad una cooperazione ad ampio spettro nella regione.

L’identità politica postcoloniale di questi paesi stava così maturando e con essa la convinzione della urgenza di realizzare un’entità regionale che, fra l’altro, amplificasse la propria "voce" ed il proprio peso all’interno del contesto internazionale.

A questo fine furono lanciati principalmente tre significativi schemi organizzativi: ASA, Maphilindo ed ASPAC.

Anch’essi, tuttavia, non ebbero per le ragioni più avanti esposte lunga vita.

3) Una terza fase, che continua ancora nel presente, è stata inaugurata nell’agosto del 1967 con la sottoscrizione, da parte dei capi di stato delle Filippine, Indonesia, Malesia, Singapore e Thailandia, della Dichiarazione di Bangkok che ha dato nascita all’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico).

Il fatto più sorprendente di questo importante passo nel cammino dell’integrazione regionale è stata la presenza immediata dell’Indonesia quale paese membro. Essa, infatti, simbolizzava la fine della campagna di Konfrontasi e del disinteresse a lungo mostrato nei riguardi di questa tematica. Ciò assume maggiore significato se si considera che l’Indonesia era ed è tuttora il paese dell’area di gran lunga più esteso e popolato e che, in questa ottica, la sua mancanza avrebbe significato una considerevole perdita di scala ed immagine per l’ASEAN.

Tale fase, come vedremo nei prossimi capitoli, ha seguito un iter altalenante ed ha visto l’entrata a far parte di nuovi paesi membri.

Il Brunei ha aderito all’associazione nel 1984. Con una popolazione di meno di 300 000 abitanti, il piccolo stato aumentava da un lato i mercati di destinazione delle proprie risorse e dall’altro accresceva il proprio peso politico a livello internazionale.

Il Vietnam, conscio dell’inevitabile tendenza mondiale alla globalizzazione ed alla interdipendenza economica, ha aderito all’ASEAN nel 1995. I vantaggi che ne sarebbero derivati sia per l’associazione che per il nuovo arrivato erano più forti delle antiche contrapposizioni ideologiche.

Laos e Myanamar sono entrati a far parte del raggruppamento nel 1997 in occasione del trentesimo anniversario. Essi già in precedenza avevano aderito e siglato il Trattato di Amicizia e Cooperazione ed il Trattato di denuclearizzazione del Sud-est Asiatico, beneficiando al contempo dello status di paesi osservatori.

Nello stesso anno era prevista l’inclusione della Cambogia ma all’ultimo momento, a causa di alcuni incidenti interni che avevano portato all’uso della forza in quel paese, i ministri degli esteri ASEAN decisero di rinviarne l’ammissione ad avvenuta normalizzazione politica.

In occasione del sesto summit, tenutosi ad Hanoi nel dicembre 1998, la Cambogia è finalmente entrata a far parte dell’associazione portando a 10 i paesi membri (ASEAN-10) e completando il processo di integrazione dei paesi rientranti nel Sud-Est Asiatico.

Nel 1992 si è assistito, inoltre, al rilancio della cooperazione economica regionale per effetto dell’introduzione graduale della zona di libero scambio (AFTA), sotto l’esempio di quella europea e nordamericana. Questo può, forse, considerarsi il primo vero passo verso un processo di integrazione, prevalentemente economico, del Sud-Est Asiatico.

La crisi economico-finanziaria che ha investito l’area asiatica a partire dal 1997, e che manifesta tuttora i suoi effetti, ha senza dubbio rallentato il passo degli anni passati nella strada della crescita sostenuta, ma al contempo ha rinvigorito lo spirito d’unione dei paesi in questione ed ha rappresentato, in modo analogo alla crisi petrolifera del 1973 per i paesi sviluppati, uno stimolo ad evolversi verso cammini di crescita più sostenibili.

La risposta dell’ASEAN alle difficili sfide che la crisi ha generato non è stata tuttavia del tutto tempestiva. La portata e l’efficacia delle forti misure anticrisi escogitate potranno ad ogni modo essere valutate solo con l’andare del tempo.

Concluso questo quadro introduttivo è opportuno passare brevemente in rassegna le più importanti tipologie organizzative che hanno caratterizzato le prime due fasi del regionalismo, lasciando al secondo capitolo il compito di analizzare in dettaglio quella inerente la nascita e l’evoluzione dell’ASEAN.

Non appare, tuttavia, fuori tema esporre due ultime considerazioni che aiutino nella interpretazione di quanto segue.

In primo luogo, va precisato che la suddivisione schematica per fasi del processo storico del regionalismo nel Sud-Est Asiatico non deve considerarsi, come qualsiasi altro processo e fenomeno storico, fisso e determinato in un susseguirsi di eventi non correlati tra loro. Le fasi proposte, e le forme organizzative che ne rientrano, sono interconnesse e la scelta di date suddivisorie deve essere considerata convenzionale e giustificata da ragioni di chiarezza espositiva, ma non per questo priva di qualsiasi fondamento.

In secondo luogo va notato come, in base anche alla considerazione poc’anzi portata, la nascita dell’ASEAN non sia un fenomeno storico di coesione regionale isolato ed asettico che non trovi, in altri termini, un proprio substrato evolutivo in esperienze passate. L’ASEAN ha, in questa prospettiva, tratto degli insegnamenti preziosi dalle precedenti e fallimentari formule organizzative. Non di minore importanza sono stati, a tal riguardo, gli esempi di comunità regionali preesistenti nel più vasto panorama internazionale, in primis la Comunità Economica Europea.

 

 

1.2.2 La prima fase del regionalismo: SEATO

Nel dopoguerra la situazione politica dei paesi dell’area asiatica sudorientale non era ancora matura per realizzare, di propria iniziativa, forme organizzative regionali indipendenti.

Singapore, Malaya ed i territori del Borneo erano ancora legate al cordone ombelicale britannico sotto forma di colonie; il Vietnam lottava per l’indipendenza dalla Francia; la Cambogia ed il Laos rimasero colonie francesi fino al 1954; la Birmania propendeva ad intrattenere rapporti più con l’India, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti piuttosto che con gli altri paesi limitrofi; le Filippine, nonostante facessero retorici proclami a favore di un regionalismo asiatico, rimanevano di fatto un campo base per gli americani; l’Indonesia sembrava disinteressarsi di qualsiasi iniziativa coesiva della regione.

In questo contesto, e poco dopo la conferenza di Ginevra sull’Indocina a seguito della vittoria finale dei vietnamiti sui francesi a Dien Bien Phu, fu stipulata nel 1954 a Manila la SEATO.

Le nazioni partecipanti, Australia, Gran Bretagna, Francia, Nuova Zelanda, Pakistan, Filippine, Thailandia e Stati Uniti, firmarono il "South-East Asia Collective Defense Treaty" (Trattato di Manila) e promulgarono in allegato la cosiddetta Carta del Pacifico.

Più che un vero e proprio accordo regionale per il Sud-Est Asiatico, la SEATO, sorta sotto la spinta del segretario di stato americano John Foster Dulles, va considerata un tassello nel mosaico della politica mondiale delle alleanze posta in essere dagli Stati Uniti come strumento preventivo e prevalentemente militare di contenimento della minaccia comunista (PALMER 1991).

Ben presto, difatti, essa si rivelò un’istituzione a vocazione essenzialmente militare, centrata sulla rete di basi americane nella regione, ed incaricata prioritariamente di contenere la potenziale pressione del comunismo cinese verso il Sud.

Tale tendenza si consolidò nonostante il trattato non prevedesse accordi rientranti nella sola sfera della sicurezza.

L’articolo 3 del trattato, ad esempio, recitava quanto segue: "Le parti si impegnano a rafforzare le loro libere istituzioni ed a cooperare vicendevolmente nel perseguimento dello sviluppo delle misure economiche … volte a favorire il progresso economico ed il benessere sociale così come ad incoraggiare gli sforzi individuali e collettivi dei governi in questa direzione".

Sia pur nella generalità dell’impostazione, tale formula prevedeva, dunque, il perseguimento comune di misure economiche di ampia portata.

Purtroppo i signatari di quest’accordo, forse anche per il timore di interferire con le organizzazioni già presenti (ECAFE e Piano Colombo), limitarono tale cooperazione economica a dei settori molto ristretti. I principali sforzi furono intrapresi nel campo della formazione professionale e della creazione di mano d’opera specializzata. La portata di questi progetti fu comunque irrilevante.

La SEATO, dunque, finì per somigliare più ad un accordo di sicurezza che ad un accordo di cooperazione vero e proprio e ricalcò, sia pur meno incisivamente, le orme lasciate cinque anni prima dalla fondazione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Se quest’ultima, infatti, si proponeva di allontanare militarmente la minaccia espansionistica dell’Unione Sovietica la SEATO si prefiggeva analogamente di allontanare quella, basata sulle medesime premesse ideologiche, della superpotenza cinese.

Sebbene solo due nazioni del Sud-Est Asiatico, le Filippine e la Thailandia, cui si aggiunse il Pakistan, furono firmatarie del trattato, essa prendeva in considerazione tutta l’area del sudorientale; uno dei protocolli d’intesa prevedeva, a questo proposito, l’estensione delle clausole del trattato all’Indocina.

Il trattato conteneva norme per l’esercizio di azioni comuni in caso di un attacco armato contro qualsiasi paese della regione e, a differenza di quello NATO, era nella forma notevolmente più generale poiché, come già visto, conteneva accordi atti a rafforzare il sorgere di libere istituzioni e promuovere il benessere sociale ed il progresso economico

In un protocollo separato gli Stati Uniti chiarirono che, dal loro punto di vista, il trattato di Manila andava interpretato come un impegno a garantire un’azione difensiva comune solo in caso di aggressione comunista. Nel 1962, in un altro protocollo unilaterale da aggiungersi al Trattato di Manila, gli Stati Uniti si impegnarono, inoltre, a garantire assistenza alla Thailandia in caso di un’aggressione comunista indipendentemente dall’appoggio degli altri membri SEATO.

Nonostante il continuo supporto degli Stati Uniti, l’accordo SEATO divenne lettera morta poco dopo la sua formazione e, in effetti, non ebbe mai tanto potenziale neanche come strumento di sicurezza comune.

La maggior parte dei suoi membri si dimostrò, difatti, riluttante a riaffermare nel corso del tempo il proprio impegno al mantenimento dell’obiettivo sicurezza.

A ciò si aggiunga che la SEATO fu molto criticata, non solo dall’Unione Sovietica e da altri stati comunisti, ma anche da influenti gruppi di pressione all’interno degli stessi stati membri e da paesi neutrali non signatari del trattato, in particolare l’Indonesia.

Con il graduale sfumarsi dei toni della contrapposizione Est-Ovest, di cui la guerra fredda rappresentò l’emblema, la SEATO perdette inevitabilmente significato e, con esso, alcuni suoi membri.

Francia e Pakistan cessarono di rivestire un ruolo attivo nell’alleanza e la Gran Bretagna manifestò una crescente riluttanza a prendere parte a qualsiasi esercitazione militare dell’organizzazione.

Mentre, così, da una parte la SEATO sviluppava una crescente e ramificata struttura organizzativa, principalmente in Bangkok, dall’altra essa perdeva l’appoggio dei suoi membri e diminuiva irrimediabilmente il suo peso e la sua già precaria rilevanza ai fini della sicurezza della regione.

Sebbene la sua efficacia risultò chiaramente scemata già a partire dai primissimi anni ’60, il suo apparato organizzativo sopravvisse fino alla fine degli anni ’70, allorché la sede del quartier generale a Bangkok fu rilevata dal governo tailandese.

L’alleanza restava sulla carta nonostante nella sostanza fosse da tempo lettera morta.

Complici i postumi della dominazione coloniale, la SEATO fu l’esempio di come fosse difficile instaurare dall’esterno qualsiasi efficace forma di cooperazione regionale, anche solo militare.

 

 

1.2.3 La seconda fase del regionalismo: ASA, Maphilindo ed ASPAC

Raggiunta l’indipendenza da alcuni anni, molte fragili neodemocrazie della regione sentirono l’esigenza di sviluppare qualche forma organizzativa coesiva che fosse capace di allontanare le mire espansionistiche dei paesi vicini, di estendere la cooperazione a settori non esclusivamente militari e di amplificare la propria importanza in ambito internazionale.

In base a queste premesse nacque nel 1961, su iniziativa del primo ministro Tunku Abdul Rahman dell’allora neoindipendente Malesia, l’ASA (Associazione del Sud-Est Asiatico).

Tale associazione, a differenza delle precedenti esperienze, fu il primo significativo passo verso la realizzazione autodeterminata di un’effettiva organizzazione regionale dedita alla cooperazione economica e culturale tra i paesi membri.

Le ragioni che portarono all’istituzione di questa organizzazione furono molteplici. L’allora ministro degli esteri tailandese, Thanat Khoman, le riassume in questo modo: "la più importante di queste fu il fatto che, con il ritiro delle potenze coloniali, ci sarebbe stato un vuoto di potere che avrebbe potuto attrarre forze straniere .. Secondariamente, come molti di noi conobbero per esperienza, specialmente attraverso l’esempio della SEATO, la cooperazione tra paesi disparati e localizzati in isole distanti sarebbe stata inefficace. Dovevamo, quindi, sforzarci di costruire una forma di cooperazione tra coloro che vivevano vicino l’uno con l’altro e condividevano interessi comuni. In terzo luogo, la necessità di unire le forze divenne imperativa per i paesi del Sud-Est Asiatico per essere "ascoltati" ed efficaci. Questa è la triste verità che dovemmo imparare. Il motivo dei nostri sforzi per collegarsi era quindi quello di rafforzare la nostra posizione e proteggerci dalla concorrenza delle grandi potenze. In ultimo, è generalmente riconosciuto che la cooperazione e l’integrazione servono a perseguire l’interesse di tutti, qualcosa che gli sforzi individuali non possono mai raggiungere" (KHOMAN 1992).

In particolare nell’accordo vi erano alcune interessanti clausole che si prefiggevano, per i paesi membri e per i loro cittadini, di:

a) "stabilire un meccanismo efficace di consultazione amichevole, di collaborazione e di mutua assistenza nel campo economico, sociale, culturale, scientifico ed amministrativo".

b) "fornire una formazione educativa, professionale, tecnica ed amministrativa e delle strutture di ricerca".

c) "scambiare informazioni…….nel campo economico, culturale, educativo e scientifico".

d) "cooperare nella promozione di studi sul Sud-est Asiatico".

e) "fornire un meccanismo di profittevole collaborazione nell’utilizzazione delle rispettive risorse naturali, nello sviluppo delle rispettive agricolture ed industrie, nell’espansione del commercio, nel miglioramento delle infrastrutture nell’ambito dei trasporti e delle comunicazioni, e nel generale incremento del livello di vita delle proprie popolazioni".

f) "cooperare nello studio dei problemi inerenti il commercio dei beni internazionali".

g) "cooperare nel raggiungimento degli obiettivi dell’Associazione, così come contribuire più efficacemente al lavoro delle già esistenti organizzazioni ed agenzie internazionali" (HAAS 1974).

Nonostante le pregevoli intenzioni e l’iniziale invito a partecipare rivolto a tutti i paesi filo-occidentali o neutrali, questa associazione ebbe, per i motivi qui di seguito esposti, vita limitata e contò solo la Malesia, le Filippine e la Thailandia nel novero dei paesi membri.

Nel 1963, in seguito ad una proposta britannica, due territori nell’isola del Borneo (Sarawak e Saba) così come, sia pur brevemente, Singapore furono unite alla Malesia per dare vita alla Federazione della Malaysia.

Le Filippine e l’Indonesia rifiutarono di riconoscere tale Federazione a causa delle antiche rivendicazioni che sostenevano su quei territori.

Il presidente indonesiano Sukarno lanciò un piano di guerriglia armata contro di essa, definendolo in modo eufemistico politica di Konfrontasi e nel gennaio 1965 decise di ritirare il proprio paese dalle Nazioni Unite a seguito dell’elezione della Malaysia a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza . Tale conflittuale indirizzo politico cessò solo in seguito alla caduta, avvenuta l’anno seguente, del leader indonesiano ad opera della giunta militare guidata da Suharto.

L’ASA fu così la prima vittima sacrificale di tale disputa nonostante il suo modesto segretariato continuasse a portare avanti nell’ombra e per un breve periodo la sua attività.

Sebbene abbia avuto una durata limitata ed abbia coinvolto soltanto tre paesi della regione, l’ASA ha rappresentato, per l’estensione delle forme cooperative previste e per l’indipendenza da paesi estranei, il più importante esempio di coesione antecedente il concepimento dell’ASEAN. Quest’ultima ricalcherà alcuni dei concetti fondamentali proposti in alcuni punti del trattato sopraelencati. Ma prima che ciò avvenisse occorreva attendere la fine della politica di Konfrontasi.

La formazione della Federazione della Malaysia fu alla base del fallimento anche di un'altra associazione, il Maphilindo.

Tale associazione, che riunì la Malesia, le Filippine e l’Indonesia, fu proclamata nell’agosto 1963 in base alla sottoscrizione di una dichiarazione da parte dei ministri degli esteri dei rispettivi paesi.

Ricevette anch’essa un colpo mortale appena un mese dopo la nascita della Federazione della Malaysia. Come già evidenziato né le Filippine e né l’Indonesia accettarono di riconoscere la nuova federazione.

Il Maphilindo fu così l’ennesimo esempio di organizzazione regionale vittima di un conflitto che creò negli anni ’60 profonde spaccature all’interno dell’area.

Ancora meno rilevante, dal punto di vista del regionalismo nel Sud-est Asiatico, fu l’ASPAC (Consiglio per l’Asia e per il Pacifico), concepito nel 1966 su iniziativa del presidente sudcoreano Park Chung-hee sotto la spinta degli Stati Uniti.

L’unico significato effettivo che ebbe, fu quello di rappresentare il maggiore esempio di organizzazione multiregionale disegnata per riunire gran parte delle principali nazioni non comuniste del Pacifico occidentale di fronte alle impellenti minacce esterne, fra cui quello della difficile situazione indocinese, e per fornire una struttura d’appoggio alla diffusione di una più ampia cooperazione.

I suoi membri furono Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Malaysia, Taiwan, Filippine, Vietnam del Sud, Thailandia e Laos come osservatore esterno. Fra di essi solo quattro appartenevano alla regione sudorientale. L’Indonesia, la più grande nazione dell’area in termini di superficie e di popolazione, si rifiutò di aderire all’iniziativa.

L’ASPAC ricevette nella pratica un timido appoggio da tutti i suoi membri, eccezion fatta per la Corea del Sud.

Neppure i suoi obiettivi ed il campo d’azione furono ben definiti. In un comunicato congiunto rilasciato alla chiusura dell’incontro inaugurale a Seoul i paesi partecipanti annunciarono la loro "determinazione a preservare la loro integrità e sovranità di fronte alle minacce esterne". Allo stesso tempo, però, si accordarono incoerentemente di impostare la nuova organizzazione su basi "non militariste, non ideologiche e non anticomuniste".

L’efficacia di questa organizzazione fu così minata alla base da una parte dall’incongruenza degli obiettivi dichiarati e dall’altra dalla relativa normalizzazione, conclusasi la guerra del Vietnam, dei rapporti tra la Repubblica Democratica Cinese ed i paesi non comunisti, in primis gli Stati Uniti.

Non sorprendentemente l’ASPAC fu sciolto nel 1973, appena sette anni dopo la sua nascita.

Prima di esaminare, nel successivo capitolo, la terza fase del regionalismo è necessario richiamare brevemente alcuni concetti teorici fondamentali riguardanti l’integrazione economica regionale. Ciò appare indispensabile per inquadrare l’ASEAN nel suo stadio evolutivo e nei suoi aspetti più caratterizzanti.

 

 

1.3 Concetti teorici fondamentali sull’integrazione regionale

È stato giustamente osservato che l’integrazione economica a livello regionale non è un obiettivo di per sé ma è semmai uno strumento per raggiungere degli obiettivi (MOLLE 1990).

Tali obiettivi ovviamente possono essere di varia natura (libero movimento di beni e servizi, di fattori produttivi ecc.); in generale, però, essi possono essere sintetizzati nell’accrescimento del benessere e nello sviluppo, intesi nel senso più ampio, delle nazioni coinvolte.

Il termine "integrazione economica", se si accetta l’interpretazione di Molle, può assumere due significati a seconda del fattore tempo (MOLLE 1990):

  1. in senso statico: esso rappresenta una situazione in cui le componenti nazionali di una struttura economica più ampia (organizzazione regionale) non sono separate da frontiere economiche e funzionano all’unisono come parti di un'unica entità.

  2. in senso dinamico: esso significa un processo di progressiva eliminazione delle frontiere economiche esistenti tra i paesi membri, in cui le separate componenti nazionali agiscono gradualmente per fondersi in un'unica entità.

Se si accetta esclusivamente la prima interpretazione il termine integrazione economica non sarebbe congeniale per etichettare lo stato attuale dell’ASEAN.

Se, invece, si è disposti ad un'interpretazione più aperta e dinamica del concetto stesso, allora l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico rientra a giusto titolo nella tipologia di organizzazione regionale caratterizzata da un processo in corso di integrazione economica.

Quest’ultima, semmai le due concezioni si dovessero considerare necessariamente antitetiche o reciprocamente esclusive, è la tesi da me condivisa.

In linea con questa concezione BALASSA, in una sua opera del 1961, suddivide il processo di integrazione economica, a seconda del livello e della profondità raggiunta, in ben sette stadi:

  1. Area di libero scambio: situazione in cui sono abolite tra i paesi membri tutte le barriere (tariffarie e non) al commercio infraregionale. Ogni paese conserva, però, il diritto di applicare autonomamente la propria politica doganale nei confronti dei paesi terzi. A questo riguardo, onde evitare la cosiddetta deviazione dei traffici (l’entrata indiscriminata nell’area delle merci a partire dal paese che applica le condizioni tariffarie e non più vantaggiose), i beni oggetto di libero scambio devono essere muniti di un certificato di origine che ne testimoni la provenienza interna.

  2. Unione doganale: oltre alla rimozione di tutte le barriere, come nel caso precedente, è prevista una politica tariffaria comune per le merci provenienti dai paesi terzi. Ciò elimina l’appesantimento burocratico dei certificati d’origine.

  3. Mercato comune: è un'unione doganale in cui oltre ai beni ed ai servizi anche i fattori produttivi (lavoro e capitale) sono liberi di circolare internamente.

  4. Unione economica: rispetto al mercato comune essa prevede un alto livello di coordinamento od unificazione in molte delle aree di politica economica (a livello micro e macroeconomico), monetaria e fiscale. Si stabilisce inoltre una politica economica esterna comune in altri settori oltre quello del commercio.

  5. Unione monetaria: rispetto al mercato comune comporta l’utilizzo di una sola moneta fra i paesi membri. In via secondaria può limitarsi a creare dei tassi di cambio irrevocabilmente fissi ed una piena convertibilità interna delle monete nazionali.

  6. Unione monetaria ed economica: riunisce i due casi sovraesposti.

  7. Unione economica completa: è il gradino ultimo dell’integrazione economica e presuppone la piena unificazione delle singole economie. Per effetto di essa le singole economie non sono più tali ma diventano una sola come se facessero capo ad un unico paese. Questo generalmente implica anche l’unione politica degli stati membri.

Il complesso delle misure intraprese in ciascun stadio non devono essere considerate rigidamente inquadrate in uno ed uno solo di queste suddivisioni proposte dallo schema.

In base ad esso l’Unione Europea ha raggiunto un livello di integrazione paragonabile al penultimo stadio (Unione monetaria ed economica).

L’ASEAN, invece, si trova appena al primo stadio, visto che l’implementazione dell’area di libero scambio (AFTA) non sarà ultimata prima del 2002.

In futuro non si esclude il passaggio a Comunità Economica senza però questo implicare l’adozione di un’unica politica doganale esterna. Si rimanda all’ultimo capitolo per considerazioni ulteriori riguardo questa ipotesi.

L’AFTA, dunque, rappresenta a tutti gli effetti il primo stadio del processo di integrazione economica del Sud-Est Asiatico.

     

È possibile consultare alcune mappe ed immagini sull'ASEAN e sul Sud-Est Asiatico.

 

 

 

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